Silenzio perché le parole faticano ad uscire. Silenzio perché i pensieri si accavallano nella mente e sono travolti dalle emozioni.
Silenzio, un bisogno di contatto con se stessi o una necessità per ritrovarsi o ritrovare il senso delle cose.
Strazio e silenzio. Silenzio e lacrime.
E le immagini che ci accompagnano in questi giorni ne fanno scorrere tante.
Fatico a scrivere come se non mi sentissi autorizzata a farlo. Lo fanno tanti occupando spazi importanti di riflessione. Chi sono io. Ma poi penso che ognuno di noi può essere goccia, la goccia che scava la pietra.
Ho quasi timore a farlo, o fatico a farlo, forse perché gli psicoterapeuti si occupano di conflitti interni e aiutano le persone ad affrontarli e a risolverli. E so che tanti colleghi si sentono come me. Siamo dei mediatori diplomatici interni, che cercano di prevenire i conflitti o di risolverli quando sono in atto. E poca differenza fa se il conflitto sia interno ad una persona o sia relazionale. In più occupandomi di traumi spesso sono in prima linea, quella interiore, che ha a che fare con violenze e anche con esiti di guerre.
Per questo ci vuole silenzio, perché i sentimenti di tutti sono tanti e di fronte alla paura, al senso di ingiusta, alla follia, proviamo tutti un senso di minaccia, quel senso di minaccia che abbiamo provato collettivamente durante la pandemia, e non ancora risolto.
E forse è il senso di minaccia che blocca le parole, che alle volte senti che vengono su e che ricacci indietro. Come se dirle lo rendesse ancora più reale. Quando siamo sotto minaccia sentiamo il bisogno del conforto. Un conforto personale, ma che per essere efficace deve essere condiviso. Conforto e sostegno.
Scrivo o trovo il coraggio di scrivere nella giornata dei diritti delle donne, perché non c’è festa, ci sono diritti.
Silenzio, ricordiamo chi siamo e facciamo appello alla nostra umanità, quella buona.
Siamo così abituati, e siamo stai educati così, alla sicurezza, come se fosse un bene scontato e forse lo scopo più importante della nostra vita. Ma qual’è il rovescio della medaglia o qual’è il prezzo che si paga? Uno strano sentimento, un mix di conformismo, fatto di abitudini e piatta adesione a quanto viene proposto o offerto, e apatia. Abbiamo così tanto, ma scontato, che tante non proviamo più gioia ne desiderio.
In questi giorni ho pianto spesso di fronte alle immagini della guerra in Ucraina, la solita miseria di quello che rimane dopo la furia della devastazione. Persone come noi che si trovano la vita stravolta per sempre e che guardano le macerie delle loro case o aiutano a portare sacchetti di sabbia per salvare ciò che ancora rimane. Fra le tante immagini e storie che ci arrivano, mi ha toccato molto vedere una vecchia signora che veniva invitata dai soldati ad allontanarsi dalla sua casa, in un palazzo completamente bombardato, ma voleva che il soldato la chiudesse a chiave, un atto estremo, anche irrazionale forse, ma che faceva sentire l’intensità di preservare e proteggere la propria storia di vita. Poi le altre immagini di morte, tutte, tante, troppe.
Penso tristemente che la storia non ci abbia insegnato molto, o che ci sia qualcosa nell’animo degli uomini che ci sfugge o che non vogliamo vederne il baratro.
Io sono nata da genitori anziani che la seconda guerra mondiale l’hanno fatta e provo un’angoscia intensa, perché ritrovo tanto dei racconti della mia famiglia…le sirene che segnalano l’arrivo dei bombardamenti e l’invito ad andare nei rifugi anti aerei, gli stessi della seconda guerra mondiale, o nelle metropolitane, i rifugi più moderni. E chi non li ha vissuti, o sentiti nei racconti di famiglia, questi ricordi li ha comunque studiati…ma ci troviamo ancora qui di fronte a questa realtà che ci riguarda e ci riguarderà tutti nei prossimi mesi.
Forse non sarà un caso, ma questa guerra si svolge negli stessi territori europei dove sono nate nel 1914 e nel 1939 le due guerre mondiali, e forse sarà anche questo che inconsciamente attiva qualcosa di diverso da altre guerre, non nuovo, purtroppo conosciuto. Un sentore di thanatos collettivo che temiamo di non riuscire a fermare, che ci fa sentire impotenti o ci fa commettere, a nostra volta, atti minori, ma solo apparentemente minori, come eliminare il corso di Dostoevskij dalla nota e illustre università Bicocca, che però hanno lo stesso veleno dentro. Stesso veleno nel pensare di eliminarne la statua a Firenze, come hanno fatto i Talebani con i Buddha. Vogliamo eliminare i libri russi dalle fiere, in una sorta di una nuova inquisizione. Non è così che ne verremo fuori, non è alimentando veleni o perseguitando popoli che pagano solo il prezzo dei loro dittatori, e il prezzo diretto sulla loro pelle e già tanto per aggiungerci il prezzo della nostra frustrazione reattiva. Il nemico a questo punto è dentro di noi, non alle porte.
Ricordiamoci che siamo un granello nell’universo, non comportiamoci da parassiti. Quella russa è e rimarrà una grande cultura, fatta di letteratura, musica, balletti, cinema, psicologi come Vigotszkij, medici ricercatori come Lurija.
Eliminare questa cultura farebbe torto a noi tutti, non al dittatore di turno.
Non faccio la politologa o l’analista geopolitico, faccio un altro lavoro la psicoterapeuta e soffro per entrambi i popoli in guerra, perché sarà dolorosa come tutte le guerre fra parenti, una guerra interna e civile, dove si combatte fra legàmi di sangue, e continuo a sperare che non gireremo le spalle questa volta. Che troveremo il modo per aiutare. Chi combatte per i carnefici, suo malgrado, non ha neanche il privilegio dell’ empatia che proviamo per le vittime.
Cito, per chi non la conoscesse ancora, la storia del “Silenzio”, un brano che conoscono tutti i soldati. Brano molto evocativo, da nodo alla gola, forse per la storia che ha. Dobbiamo risalire al 1862, durante la guerra civile americana, dove il Capitano Ellicombe, che combatteva nelle file dell’esercito nordista, contro i sudisti, dopo una giornata di combattimenti, con quella stessa logica fratricida che vediamo oggi, andò a recuperare di notte un soldato che gemeva sul campo di battaglia, rischiando la vita sotto il fuoco nemico. Una volta trasportato nel suo accampamento si accorse che era un soldato sudista, e non uno qualsiasi, ma era suo figlio, che combatteva nell’esercito nemico, perché studiava musica al sud e si era arruolato di nascosto dal padre nelle file “nemiche”. Il Capitano chiese comunque una degna sepoltura per il figlio e scelse un trombettiere che suonasse un brano che aveva trovato scritto nelle tasche della divisa del figlio. È il Taps, Il Silenzio, brano straziante perché scritto di pugno da un’anima straziata per la rivalità della guerra civile, guerra fra parenti.
Ucraini e Russi sono vittime, come siamo tutti vittime.
Ognuno di noi può fare qualcosa per trovare antidoti a questo veleno. Ognuno con quello che è e quello che fa.
Per questo, da psicoterapeuta, nel post precedente su FB ho chiesto di condividere questo link https://www.psychotraumaunit.com/tips-for-parents, di un collega israeliano dove si possono trovare consigli e suggerimenti per genitori per aiutare a creare calma, senso di sicurezza e resilienza emotiva durante la guerra. Possiamo condividerlo con tutte le persone a cui potrà essere utile. E se potrò fare altro lo farò.
Ma quello che ci potrà essere utile sarà recuperare quello che siamo. Spesso ci definiamo attraverso quello che facciamo, “faccio la psicologa, faccio l’avvocato…”, addirittura da confondere il fare con l’essere, “sono psicologa, sono avvocato”, e forse ci siamo persi, in questo fare per apparire, ci siamo persi il saper essere.
Abbiamo sì bisogno di persone anche di successo, che sono simboli che attivano, si spera, le coscienze, come Sting che ha cantato il brano “Russian” che aveva scritto nel 1985 durante la Guerra Fredda, cantata con tristezza perché non avrebbe pensato che tornasse di attualità. O Andrea Vianello, per chi lo ricorda il giornalista storico conduttore Rai, che nel 2019 è stato colpito da un’ischemia cerebrale che gli ha tolto temporaneamente l’uso della parola, e che decidendo di fare qualcosa come
Direttore di Rai Radio 1 ha trasferito la sua squadra da lunedì 7 marzo dove trasmetterà in diretta da Leopoli. Un bell’esempio di pratica di Servizio pubblico.
Ma penso che avremo ancora più bisogno di persone che sappiano essere, con amore, gentilezza, compassione, perdono, gratitudine, empatia, conforto, sostegno. Queste sono le emozioni che dobbiamo coltivare. Ne avremo bisogno.
Perché le ferite si cureranno così.