Parto proprio da questo, dalla definizione dei due termini, e chi mi conosce sa che lo faccio sempre, perché è importante usare termini in modo appropriato, soprattutto in periodi come questo che stiamo vivendo, dove spesso le parole vengono usate in modo improprio.
La ferita è una “lesione traumatica”, dove a causa di un agente esterno si crea “interruzione “ dei tessuti. La cicatrice è Il tessuto fibroso che si forma per riparare la lesione, la ferita appunto. Le cicatrici che non si rimarginano come le ferite normali, lasciano un segno sulla pelle.
Mi sto riferendo alle ferite psicologiche della pandemia e, se non le cureremo, alle cicatrici che questa situazione lascerà nella mente delle persone. Le ferite psicologiche non si vedono, ma lasciano segni indelebili nell’anima delle persone e a volte la mente si disorganizza.
E come sempre parto da quello che osservo e vivo in presa diretta con i miei pazienti. C’è aria di attesa, fatta di tanta preoccupazione, preoccupazione che possa iniziare di nuovo un periodo durissimo, fatto di fatiche e paure che tutti noi abbiamo conosciuto durante la prima ondata della pandemia. E questo non capita solo a medici ed infermieri che vivono in presa diretta il riempirsi nuovamente dei reparti e dei pronto soccorso, ma riguarda tutti, proprio perché la pandemia ha impattato pesantemente nella vita di tutti, nessuno escluso. La ferita psicologica è legata al trauma che abbiamo tutti vissuto.
E in greco traûma significa “ferita”, nel senso di una vera e propria lacerazione della psiche, che avviene quando qualcosa, uno o un insieme di eventi irrompono nel percorso di vita di una persona, in modo violento, inaspettato, imprevedibile, portando ad una non integrazione nel vissuto di chi lo vive, quindi ad una disorganizzazione della mente. I vissuti diventano pesanti e a volte intollerabili, e le emozioni che viviamo, ma che non riusciamo a gestire, ci disregolano.
In primavera c’è chi è impattato in una grande trauma, che noi chiamiamo “T”, e mi riferisco alle figure sanitarie che si sono trovate di fronte a scenari mai visti e dove la medicina che conoscevano sembrava non funzionare più. Oppure a chi ha perso persone care alle quali non è potuto stare vicino e fare un degno funerale, che rappresenta il nostro rituale di saluto alla persona amata. Oppure a chi ha vissuto sulla propria pelle gli effetti di questa malattia in ospedale, intubato senza sapere se e quando si sarebbe ripreso, o chi si è ammalato e si è sentito abbandonato a casa, spesso curato telefonicamente, e che ha avuto una paura tremenda di morire.
Poi ci sono i “t” piccoli, i traumi più piccoli, ma che come gocce scavano le pietre. Sono i traumi relazionali. Esperienze disturbanti che si ripetono nel tempo con una certa costanza. Quelli che accadono nelle nostre vite di relazione tutti i giorni. Pensiamo ai cambiamenti radicali, durante la pandemia, che hanno modificato le nostre abitudini di vita, la nostra vita sociale. Oppure al “neglect”, la trascuratezza, che hanno vissuto soprattutto i bambini piccoli, quelli che se la mamma o il papà erano al lavoro a casa al computer non avevano l’autonomia per stare tanto tempo da soli o per seguire le lezioni (immaginiamo la fascia di età fino ai 7/8 anni per esempio). Oppure non vedere per tanto tempo un genitore perché al lavoro (alcuni sanitari hanno vissuto tanto tempo fuori casa per paura di contagiare i familiari) o perché si è ammalato.
Tra l’altro come ha raccontato il Dott. Stefano Bolognini, medico psichiatra, in un’intervista pubblicata sul Sole 24ore, qualche giorno fa, durante il lockdown si sono registrati nel nostro Paese 42 suicidi (due tra il personale medico sanitario) e 36 tentativi di suicidio. Mentre negli stessi mesi del 2019, le morti erano state 14.
L’emozione dominante nella prima ondata è stata la “paura”, che ci ha lasciato attoniti e disarmati. È importante ricordarci che la paura è l’emozione che scatta quando ci sentiamo in pericolo o in allarme per qualcosa che non conosciamo (nessuno di noi si è mai trovato di fronte ad un nemico invisibile e sconosciuto come il Covid-19), ma che ha anche un effetto protettivo (per esempio fermarci e osservare, per prepararci a reagire) entro certi limiti. Però se non gestita genera ansia e panico, quando si subisce la situazione e non si riesce ad accedere alle nostre risorse interne per fronteggiarla, fino all’angoscia e alla disorganizzazione della mente. Durante questo blocco in primavera tutto è accaduto molto velocemente tanto che la nostra mente ha faticato e a volte non è riuscita ad avere il tempo di elaborare.
Ma è stata anche la fase di grande condivisione di un disagio collettivo (ricordate la musica sui balconi?) e alcune problematiche psicologiche sembravano essersi acquietate, proprio perché le angosce per la pandemia hanno spostato il focus: il nemico invisibile ha spostato la sofferenza da dentro di noi a fuori di noi, per le strade, nei supermercati, negli ospedali. Prendendo quasi distanza dalle solite angosce personali.
Poi c’è stata la fase estiva, di riapertura e di ripresa della socializzazione, che sarebbe dovuta avvenire con prudenza, mantenendo distanza e mascherina. Fase dove si sono visti i primi effetti delle ferite della pandemia, principalmente di due tipi: chi si è trovato un po’ ingessato e spiazzato ed ha dovuto trovare un modo nuovo di relazionarsi con gli altri e chi ha negato quanto accaduto esponendo se stesso e altri a comportamenti non rispettosi delle indicazioni di protezione e cautela. Persone che non sono da colpevolizzare perché è una reazione psicologica, ma che con imprudenza ha creato varie criticità i cui effetti li stiamo vedendo in questa seconda ondata epidemica.
Dico che non sono da colpevolizzare perché per comprendere questi atteggiamenti che sono stati collettivi in più occasioni, dobbiamo pensare alla ferita inferta dalla pandemia, la limitazione della nostra relazionalità, la perdita delle nostre relazioni sociali: non potersi toccare, non potersi abbracciare, non potersi baciare…si chiama “fame di pelle”, “skin hanger”. E nel nostro centro a Cascina Rongarina 42, insieme ai nostri cavalli, abbiamo lavorato in Équine Facilitated Psychotherapy tutta l’estate e stiamo tuttora continuando, perché attraverso gli interventi terapeutici con gli animali si va a cicatrizzare la ferita aperta dalla mancanza di contatto, di relazione che abbiamo ancora ora e chi sa per quanto. Quando vedo gli adolescenti che cresceranno nel momento per eccellenza della vita di scoperta delle emozioni e dell’amore, con paura, privati delle emozioni che mai prima d’ora sono state così condizionate nei comportamenti, provo tenerezza e sofferenza. Perché le relazioni non sono solo importanti psicologicamente, la relazionalità è un imperativo anche biologico…
Venendo ad oggi, a questa aria d’attesa, dopo la disillusione della speranza estiva, ci troviamo ad aver a che fare con emozioni un po’ diverse. La paura c’è e rimane, ma c’è tanta rabbia che forse è più evidente in questi ultimi giorni, rabbia di chi cerca di reagire, ma che è da orientare, se no diventa solo distruttiva, in un tutti contro tutti. Ricordiamoci però che nessuno si salva da solo ed abbiamo tutti bisogno degli altri. La rabbia è un’emozione particolarmente discontrollante e contagiosa, che si orienta con comprensione e cercando un senso comune di condivisione e di responsabilità. Forse in primis ognuno di noi dovrebbe cercare di capire come essere responsabile e prudente…proprio perché siamo all’inizio della stagione invernale ed abbiamo di fronte mesi impegnativi che potremo affrontare solo con un senso di forte collettività proprio perché la relazionalità, il nostro essere animali sociali, da “branco”, trova il senso nello stringersi stretti e forti nell’affrontare le avversità.
Probabilmente l’aspetto temporale (“quanto durerà ancora?”, “quando finirà?”), i tanti mesi che avremo di fronte con scenari non sicuri, caratterizzeranno questa seconda ondata emotiva come una fase di maggior depressività. Quindi ansia, irritabilità, rabbia, depressività.
La percezione del pericolo sta cambiando ed aumenta l’intolleranza all’incertezza e al rischio. Tanto è vero che di fronte al pericolo percepito nelle grandi città, alcune persone stanno pensando a cambiamenti radicali di vita, proprio per fronteggiare il vissuto relativo a quanto la pandemia ci stia portando via. Oggi siamo più pronti rispetto alla scorsa primavera. Dal punto di vista sanitario i medici sanno come trattare la malattia quando si presenta, pur essendo pochi, facendo turni pesanti, cosa di cui si sta parlando da tanto….la cosa che spaventa è quanto durerà proprio perché questa previsione non può farla nessuno.
Dobbiamo prepararci al ritorno di momenti di emergenza, cercando di gestire e comprendere le emozioni e nel contempo ricordarci il nostro essere parte di una comunità. Sentiamo il bisogno di “verità scientifica”, per capire e a cui fare riferimento, ma abbiamo visto anche qui grosse difficoltà, pareri discordanti forse perché esistono diverse categorie di virologi (clinici, ricercatori, epidemiologi e istituzionali) che studiano e affrontano il Covid-19 con approcci diversi, e non sempre è facile per noi capire di fronte alle difficoltà che hanno loro nel confrontarsi.
Sempre per prepararci, ricordiamoci il concetto di “ infoedemia”, cioè il rischio che si corre cercando continuamente informazioni sull’epidemia, tanto più visto i contenuti non sempre coerenti, perché rischiamo più un contagio di contenuti angoscianti e contraddittori, che il Covid-19. Può essere utile chiederci quanto tempo passiamo ultimamente, cercando informazioni su internet o in televisione….Quante ore in una giornata…. Dovremmo far crescere la nostra consapevolezza, sapendo che passerà attraverso tipi di comunicazione un po’ angosciante.
È ancora presto per fare bilanci. Ma se paragonassimo il Covid-19 ad uno stress test ognuno di noi potrebbe vedere le proprie capacità di reazione e resistenza, cercando il “Valore” personale. Ha sicuramente richiamato ognuno di noi al “Valore della vita”, al corpo e alla sua integrità, al maggior bisogno di contatto con la natura. E dalla natura dovremmo imparare il senso dell’interdipendenza collettiva e della collaborazione. Il bisogno di “prossimità “ che ha risposto al distanziamento sociale, dove ognuno ha potuto trovare il modo di non essere isolato, perché di fatto appena si è potuto di fatto o in modo virtuale, abbiamo risposto all’isolamento con sistemi di avvicinamento e contatto. Siamo cablati così, ricordiamocelo e facciamo risorsa del nostro appartenere collettivo. Le relazioni rafforzano i legami. E se è normale desiderare ciò che ci manca, diamo “Valore” alle relazioni.
Così la nostra nuova normalità, dipenderà dalla valorizzazione di ciò che un tempo era normale. Concludo con un pensiero non mio, ma che condivido pienamente, perché di speranza abbiamo bisogno, ed è per questo che dobbiamo dare senso al valore che troveremo dentro di noi.
“La speranza non ha niente a che vedere con l’ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà.” Václav Havel