Emozioni da coltivare nel tempo dell’attesa

Le riflessioni degli ultimi giorni riguardano le difficoltà che abbiamo e potremo continuare ad avere perché ci saranno ambivalenze riguardo alle decisioni che verranno prese per come continuare ad affrontare questa situazione da una parte dal punto di vista sanitario, strettamente medico, e dall’altra per come attuare e prendere decisioni che tengano conto dei risvolti economici e di come consentire la ripresa.

In entrambi i casi dovremo fare i conti con le conseguenze psicologiche sia a breve che a medio o lungo termine che questa situazione di emergenza sta comportando. E mi stupisce la continua mancanza di Psicologi e Psicoterapeuti ai tavoli di lavoro tecnici. Eppure è sotto gli occhi di tutti la difficoltà del momento e le energie che le persone stanno mettendo in campo per adeguarsi e rispettare, anche a costo di non poche disfunzionalità sulla loro pelle.

Perché tutti abbiamo un trauma, perché in una delle definizioni più generiche si definisce trauma una situazione in cui non possiamo fare nulla per cambiarla, in questo caso soprattutto perché l’esterno a noi è destrutturato o si va destrutturando rispetto all’immagine di vita che avevamo. Stiamo parlando da giorni di un “passaggio epocale”…c’era un prima e ci sarà un dopo, non ancora chiaro però. L’ansia, la paura, l’incertezza, i livelli di stress prolungati comportano una dis-regolazione del nostro sistema endocrino e del nostro sistema nervoso autonomo, che abbasserà ed influenzerà negativamente il nostro sistema immunitario, e conseguenti dis-regolazioni emotive. Le difficoltà possono disturbare la nostra percezione di integrità e le nostre capacità di adattamento. Ed è anche a questo che si dovrebbe pensare nei tavoli tecnici, a come aiutare le persone a transitare in questo momento, non così prevedibile nella sua complessità.

Parlando di noi se non possiamo cambiare la situazione, possiamo però cambiare il nostro modo di affrontarla e fronteggiarla.

Si parla spesso di resilienza, ed anche a me capita, come Psicoterapeuta, anche se preciso sempre una mia posizione un po’ critica nei confronti di questo termine tanto di moda. Sarà il suono….”resilienza”…..non mi piace la moda globalizzata del termine.

L’etimologia della parola, in senso tecnico è strettamente fisico, e si riferisce alla capacità di un materiale di assorbire e resistere ad un urto, senza rompersi. In psicologia si riferisce alla capacità dell’individuo di affrontare una situazione difficile o traumatica. In biologia si riferisce alla capacità di una materia vivente di ripararsi (autoripararsi) dopo un danno subito. Per noi come comunità, o vista la pandemia, noi come mondo, dovrebbe riguardare la capacità di riorganizzarsi e ricostruirsi la vita, affettiva, emotiva, sociale e non ultimo economica, di fronte alle difficoltà. Ricostruirsi senza perdere o alienare la propria identità, personale o di comunità.

Quindi se la resilienza rimanda alla qualità della materia di “resistere” alle forze applicate, parte un po’ la mia critica, che vuole essere comunque costruttiva. C’è un momento della frattura, soprattutto psicologica, che ci consente di entrare in contatto con le nostre fragilità e di potercene prendere cura. E questa è sempre la parte più importante di un percorso terapeutico. Quindi se resilienza=resistenza sembrerebbe contrapporsi alla fragilità e perderemmo la possibilità di aprirci nei confronti delle nostre fragilità, perderemmo la possibilità di accettare qualcosa di molto meno eroico e forte, ma molto più autentico di noi stessi. Allora mi piace pensare alla raffinatezza della fragilità, che consente ai veri forti di mostrarla.

Le radici latine del termine “resilire” starebbero a significare un rimbalzare, tornare indietro, quindi come prima. Ed è qui che sono più critica. Noi non ritorniamo come prima, anzi sarebbe un errore resistere al cambiamento che la situazione, anche e soprattutto se non scelta, ci pone davanti a noi. Tutte le situazioni ci cambiano, sta a noi farlo in modo positivo o proattivo. E soprattutto uscirne arricchiti.

Dobbiamo essere disposti a lasciar andare le nostre convinzioni, le nostre pianificazioni. Vuol dire non solo reagire e difendersi (resistere), ma contemplare anche la cedevolezza (termine a cui sono molto legata), cioè essere presenti ma con flessibilità. Anche abbandonarsi ad aprirsi dentro di noi a noi stessi.

A me piace molto la definizione di resilienza di Boris Cyrulnik (studioso dei traumi dei bambini negli orfanotrofi lager della Romania comunista) che si riferiva alla capacità di integrare funzioni e processi mentali istintivi, cognitivi e affettivi. È questo che consente più che di passare dal capire, passare al comprendere cosa sta accadendo e come poter reagire positivamente ad una situazione traumatica o difficile da sostenere. Per passare dal capire, puro atto intellettivo al comprendere, dobbiamo “sentire”, “immaginare e reimmaginare”, “fare o non fare niente”.

Quindi essere a contatto con il momento che si vive, nel qui e ora, il momento presente, anche a contatto con le proprie ombre, le parti di Sè, del nostro Sè che non ci piacciono, che non vogliamo vedere o che non vogliamo che vengano viste dagli altri. Resilienza come integrazioni delle parti, le nostre parti. Tutte.

Quindi per me è questo essere resilienti e non essere quelli di prima, ma a contatto con qualcosa che ci appartiene e che ci tenevamo celato. Nei miei colloqui terapeutici emerge sempre che la parola crisi, il momento di crisi, ci apre a nuove opportunità, anche perché ci obbliga e ci mette di fronte a noi stessi nudi, ai nostri dolori e sofferenze, e non possiamo andare oltre se non c’è ne prendiamo cura. Se non riusciamo a consolarci e confortarci, proprio come faremmo con un bambino piccolo. La resilienza richiede quindi anche la capacità di abbandonare e abbandonarsi di fronte alle difficoltà comprese, anzi grazie, a fragilità e incoerenze.

Mi facevano riflettere le sedute di psicoterapia delle ultime due settimane, dove praticamente tutti i miei pazienti hanno sognato di più, o meglio ricordato di più e, dopo le prime due settimane di ansia o di vigilanza attiva, direi in generale più tranquilli. Forse questo tempo di isolamento cautelativo, il rallentamento del senso del tempo, la mancanza di distrattori o stimoli esterni, ci da la possibilità di un maggior contatto intimo con noi stessi, come se fosse una maggior aderenza a noi stessi. Un po’ come una conchiglia (l’ostrica dei bambini ricordate?) o il mito della ghianda junghiano. Questa possibilità di connessione intensa fra sé e sé è un’opportunità unica se vista nella giusta prospettiva e questo dipende da noi e solo da noi. La connessione porta a sviluppare un senso di sicurezza che è l’antidoto naturale al trauma e alle situazioni difficili, soprattutto in questa situazione di emergenza protratta. Sempre con coscienza e senso civico rispettando #io resto a casa. Resto anche per questo, oltre che per l’importanza che ha dal punto di vista sanitario.

Per mantenere stabilità nelle nostre nuove routine, che ci danno coerenza, continuità e normalità, sfruttiamo questo momento per noi. Facciamo anche le cose che avremmo sempre voluto fare ma non avevamo mai avuto il tempo di fare. Questo potrà aumentare il senso di avere un proposito e stimolare il senso di soddisfazione e capacità. Ci aiuterà anche a dare un senso e a darci una “visione” più chiara di noi stessi e di quello che ci servirà per ripartire quando potremo farlo con sicurezza.

Perché non è così vero che siamo sulla stessa barca, in realtà stiamo attraversando la stessa tempesta se mai, ma i significati delle barche sono diversi per ognuno di noi. Per alcuni è riconnessione, per altri crisi o anche angosciosa preoccupazione futura. Quindi no non siamo sulla stessa barca ma stiamo tutti attraversando lo stesso momento di crisi (mondiale), ma con percezioni, esperienze e bisogni diversi, perché siamo diversi fra noi. Ma la cosa sicura è che ognuno di noi uscirà da questa tempesta, da questa situazione, anche se non è ancora chiaro come. Ed è per questo che è importante recuperare per tutti noi il senso della “visione” della nostra vita, per darci la possibilità di vedere oltre a ciò che si vede ora.

Nei prossimi post parlerò di emozioni resilienti, nel senso della resilienza che ho cercato di spiegare oggi, che ci aiuteranno a stare meglio nel tempo dell’attesa, aspettando la ripresa. E magari con qualche audio e video di qualche tecnica di rilassamento e di respirazione.Ricordiamoci che nostri comportamenti possono fare da specchio e modello per gli altri, a partire da chi amiamo ed abbiamo vicini…per cui “contagiamoci” con questo.

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